Esiste un termine preciso per indicare gli attacchi informatici che sfruttano il comportamento umano per rubare informazioni riservate: parliamo del social engineering. L’hacker che si muove in questo modo mette in campo delle truffe mirate prima di tutto a entrare in possesso di informazioni sensibili, e in secondo luogo a sfruttare quanto raccolto per effettuare furti, frodi o crimini di altro tipo. Stando all’ultimo rapporto Clusit, circa il 10% degli attacchi registrati sarebbe da ricondurre proprio al social engineering.
Un esempio di attacco di questo tipo è quello che vede un hacker che, per via di una password molto debole scelta dall’utente (si pensi che la password più usata nel 2021 è “123456”, seguita da “123456789” e da “12345”) riesce ad accedere al suo account Facebook. A quel punto raccogliere le più disparate informazioni sull’utente diventa estremamente facile, così da aprire le più diverse possibilità al malintenzionato. Questo potrebbe, per esempio, ricavare informazioni preziose sulle amicizie dell’utente, così da scegliere la “preda” perfetta per una truffa: a quel punto potrà mandare un messaggio o un’email a nome dell’utente all’amico, domandando una richiesta di bonifico. Arrivando da un contatto affidabile, l’amico potrebbe decidere di effettuare il bonifico come richiesto, andando a versare i propri soldi su un conto intestato all’hacker stesso o su un conto a cui l’hacker ha facile accesso.
Già da questo semplice esempio si può capire come gli attacchi di social engineering permettano ai malintenzionati di fare danni consistenti facendo leva non su difficili algoritmi o tecniche complesse, quanto invece unicamente sulle ingenuità degli utenti.