Di smart working si parla ormai da anni. Molte aziende, intrigate dall’idea di cogliere tutte le opportunità date dalle nuove tecnologie, avevano già accarezzato l’idea di implementare questo nuovo metodo di lavoro, perlomeno in alcune aree.

Senonché, fino al 2019, la percentuale di aziende che aveva già adottato lo smart working non era particolarmente alta, anzi, si parlava di una ristretta minoranza. L’Osservatorio Smart working 2019 della School of Management del Politecnico di Milano, nel novembre dello scorso anno, affermava che lo smart working era infatti stato sperimentato da 570 mila persone: una fetta piuttosto marginale dei dipendenti italiani. Ora il panorama è, come sappiamo, totalmente differente: lo stesso Osservatorio ci dice che a marzo 2020 gli smart worker in Italia sono stati 6 milioni e mezzo, e che per il post-emergenza si stimano comunque oltre 5 milioni di lavoratori da remoto. Lo smart working, dunque, è ormai tra noi, con i suoi grandi vantaggi e con le sue piccole – ma non trascurabili – criticità. Una cosa è certa: praticamente tutte le aziende, a partire da marzo, hanno capito che lo smart working non è solamente una questione di strumenti. Vediamo il perché.

Il legame tra smart working e pandemia

Per la maggior parte delle persone, il concetto di smart working è legato in modo indissolubile a quello della pandemia sanitaria. Non ci sono dubbi: senza il Covid-19 il lavoro agile non avrebbe mai e poi mai conosciuto una tale crescita repentina, partendo dal presupposto che tra il 2018 e 2019 l’aumento degli smart worker era stato di “appena” il 20%, di contro al 1.000% del 2019. Sarebbe sbagliato, però, legare troppo strettamente lo smart working a questo scenario, eccezionale e – si spera – irripetibile. Di più: quello che è stato adottato in via emergenziale a partire dal lockdown di marzo non è stato a tutti gli effetti smart working, perlomeno non a livello tecnico. Certo, tutti hanno usato questo termine, dalle aziende fino ad arrivare agli esponenti del governo. Il metodo di lavoro che hanno conosciuto i lavoratori italiani negli ultimi mesi, però, era – ed è in buona parte ancora oggi – qualcos’altro, ed è bene chiarire questo aspetto, per evitare di guardare al lavoro in mobilità sotto una lente impropria.

Cos'è lo smart working?

Smart working è indubbiamente tra i termini chiave del processo di digital trasformation che stiamo vivendo. Si tratta però di un termine nuovo, che spesso viene usato in modo poco corretto. Una definizione dello smart working che ci sentiamo di adottare è quella offerta dallo stesso Osservatorio del Politecnico di Milano, per il quale lo smart working significa “ripensare il telelavoro in un’ottica più intelligente, mettere in discussione i tradizionali vincoli legati a luogo e orario lasciando alle persone maggiore autonomia nel definire le modalità di lavoro a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati. Autonomia, ma anche flessibilità, responsabilizzazione, valorizzazione dei talenti e fiducia diventano i principi chiave di questo nuovo approccio”.Si tratta di una definizione abbastanza ampia e allo stesso tempo molto comprensibile, che ci fa capire subito una cosa: lo smart working non è ‘telelavoro’. Su questo concetto, banale ma non troppo, torneremo tra poco. Ancora prima vale la pena ricordare che in Italia, a livello normativo, si parla perlopiù di lavoro agile, ovvero – stando alla definizione contenuta nell’articolo 18 della legge 81/2017 – della “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro” e soprattutto svolta “in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale”. Lo smart working, dunque, non è semplicemente ‘lavorare a casa’.

Lo smart working non è telelavoro

A partire dalle definizioni date poco sopra si capisce che quello che si è diffuso nelle aziende a partire da marzo non è stato realmente e completamente smart working: il lavoro agile è e può essere molto di più. Quello che nella maggior parte dei casi è stato fatto è del telelavoro, con i dipendenti che hanno semplicemente cambiato luogo di lavoro, dalla sede aziendale al proprio appartamento, senza un reale ‘lavoro in agilità’, e molto spesso con una limitatissima flessibilità quanto a orari: per parlare propriamente di lavoro agile, invece, non devono esistere né vincoli spaziali né vincoli orari, con il dipendente che può lavorare in qualsiasi momento e in qualunque luogo. Stiamo parlando, quindi, di due modalità di lavoro diverse: basti pensare che il telelavoro può essere attivato semplicemente attraverso un accordo privato tra azienda e lavoratore, senza nulla di più, laddove lo smart working invece viene normato dalla già nominata legge del 2017.

Per il lavoro agile efficace non bastano gli strumenti giusti

Qui a Saidea ci occupiamo principalmente della gestione del sistema informativo delle nostre aziende clienti. Sarebbe quindi estremamente vantaggioso, per noi, affermare che per attivare il lavoro agile, e per poter lavorare davvero in mobilità sfruttando tutti i benefici dello smart working, sia sufficiente poter contare sugli strumenti digitali corretti e opportunamente impostati. Non è però così, e qualsiasi IT Manager può confermarlo. Lo smart working è infatti anche una questione di cultura, nonché di formazione dei dipendenti. Per anni si è ripetuto, giustamente, che lo smart working può portare grandi vantaggi per le aziende, anche e soprattutto in termini di produttività e di employer branding, per non parlare della possibilità di tagliare numerosi costi. Sono però poche le aziende che sono riuscite a cogliere in modo soddisfacente questo cambiamento culturale, con i vertici aziendali e i manager che faticano a sviluppare il necessario rapporto di fiducia per poter approfittare davvero delle opportunità di questa modalità lavorativa, svincolata dal tempo e dallo spazio. Sì, l’adozione emergenziale dello smart working ha cancellato tanti ostacoli dettati dalla diffusa paura di cambiare, ma ciò non significa che non sia necessario impegnarsi ulteriormente per costruire un piano umano del lavoro agile, con la nuova modalità di lavoro che per essere efficace deve essere messa al servizio dei talenti presenti in azienda. Serve dunque prima di tutto un cambiamento mentale, unito a un percorso di formazione e di reskilling, per apprendere nuove competenze, nuove conoscenze e nuove tecniche.

Lo ripetiamo: la vera sfida non è meramente di tipo tecnologico. È culturale: l’implementazione del lavoro agile richiede il non indifferente salto mentale di spezzare lo schema rigido costruito intorno al luogo fisico e all’orario di lavoro. Chi si occupa di Human resources sa molto bene che la normativa attuale non aiuta, partendo dal presupposto che alla base di qualsiasi rapporto di smart working, per ora, c’è pur sempre il classico contratto basato sulle 40 ore settimanali: diventa quindi difficoltoso, in caso mancanza di un buon rapporto fiducia tra datore di lavoro e dipendenti, impostare una modalità di lavoro agile basata sul raggiungimento degli obiettivi, nel momento in cui a contare è in fondo sempre il computo complessivo delle ore settimanali. E questo non fa altro che confermare quanto anticipato: lo smart working presuppone anche e soprattutto un cambiamento culturale.

La consulenza informatica ai tempi dello smart working

Il lavoro agile è quindi una questione di visione, di approccio mentale. Questo non toglie, però, che sia fondamentale avere anche gli strumenti adatti, senza i quali è semplicemente impossibile implementare il lavoro in mobilità, permettendo ai dipendenti di lavorare in modo agevole oltre che agile. Senza la giusta configurazione dell’infrastruttura informatica, senza seguire correttamente le fasi di IT Governance, lo smart working può trasformarsi in un problema, e non più in un’opportunità. Va poi sottolineato che parlare di lavoro agile senza concentrarsi su privacy e sicurezza è estremamente pericoloso: il solo fatto di lavorare in mobilità – per esempio – espone in modo maggiore i documenti sensibili dell’azienda.

Per implementare in modo corretto lo smart working propriamente detto è dunque di primaria importanza poter contare su un reparto IT – o su un partner IT come Saidea, certificato ISO 27001 – in grado di disegnare l’infrastruttura corretta, con la rete giusta, con le apparecchiature idonee, con il necessario trattamento sicuro dei dati in linea con le norme GDPR, con i sistemi di connessione in grado di proteggere in modo efficace le comunicazioni, e via dicendo.

Noi di Saidea siamo quindi pronti ad affiancare la tua azienda, per fornirti la necessaria assistenza informatica per un’implementazione sicura, efficace ed effettivamente vantaggiosa dello smart working.

Non è però tutto qui: con la nostra Academy abbiamo infatti realizzato dei percorsi formativi per sfruttare al meglio questi nuovi strumenti.